RECENSIONI

Gabriele Nissim 
La bontà insensata. Il segreto degli uomini giusti
Mondadori, 2011 • pp. 272 • Euro 18,50

La bontà insensata è un libro che non lascia tranquillo il lettore. Al contrario, lo costringe a un continuo paragone fra i desideri del suo cuore, il suo modo di pensare e di agire, le pagine che sta leggendo e le proposte che gli vengono dal mondo che lo circonda. Anzitutto perché chi l’ha scritto, presidente del Comitato per la Foresta dei giusti e autore di numerosi saggi su persone che, in tutto il mondo, hanno compiuto gesti di umanità in situazioni disumane, mette al centro del suo percorso un tipo d’uomo inconsueto rispetto ai modelli oggi proposti dalla mentalità dominante. Nissim compie un viaggio nel cuore umano che lo porta a incontrare, direttamente o attraverso scritti e testimonianze, persone molto diverse per cultura, estrazione sociale, razza, religione, provenienza geografica, appartenenza politica. Una sola cosa le accomuna: l’avere affermato il bene almeno per una volta nella vita. Ad accompagnare idealmente l’autore in questo itinerario è l’amico Moshe Bejski, giudice ebreo morto nel 2007, ex prigioniero del lager nazista di Płaszów. Salvato in extremis perché finito nella lista di Schindler, Bejski è stato l’anima del Giardino dei Giusti di Gerusalemme, attraverso il quale lo Stato d’Israele rende omaggio ai non ebrei che hanno salvato delle vite ebraiche, concedendo loro il titolo di Giusto fra le Nazioni. Merito di Bejski è stato quello di ampliare notevolmente la categoria di «giusto», attribuendo questo appellativo, come scrive Nissim, a nazisti e antinazisti, comunisti e anticomunisti, secondini e guardie oppure vittime e prigionieri, farabutti, prostitute e persone oneste e irreprensibili, gente che magari inizialmente non ha rischiato la vita per un atto di pietà, ma solo per un po’ di prestigio o di quieto vivere. Per Bejski il bene non sta da una parte sola, ma può essere reperito in ogni essere umano che anche per un solo istante si renda conto della statura dei suoi desideri e agisca di conseguenza. Fra gli esempi più lampanti portati da Nissim, c’è quello del «faccendiere» Schindler, che tra una speculazione e l’altra mette in salvo più di un migliaio di ebrei usando proprio la sua influenza negli ambienti nazisti. Ma a chi dubita della buona fede del disonesto speculatore, Bejski ribatte «Dove si trovavano i tedeschi cosiddetti per bene di fronte ad Auschwitz?».
Un altro caso citato dall’autore è quello della scrittrice polacca Zofia Kossak, convinta antisemita che crea la più importante rete di soccorso agli ebrei della clandestinità polacca e ne ospita alcuni in casa propria. Per questo nel 1943 viene arrestata dalla Gestapo, e sfugge alla morte per intervento della resistenza. L’ambiguità del suo comportamento ha portato alcuni storici a censurare la parte «cattiva» della scrittrice, ricordandone solo gli atti di bontà, ma per Nissim bisogna tenere conto di entrambi i versanti della sua personalità, perché proprio in questo gioco di luci e ombre si può apprezzare al meglio il valore del bene da lei compiuto.
Per Bejski non si tratta quindi di sradicare il male dalla terra, ma di riconoscere umilmente la bontà dovunque essa si mostri, consapevoli che il male stesso non può cancellarne le tracce. L’intuizione del giudice israeliano è un potente antidoto contro tutte le utopie che pretendono di creare, per amore o per forza, una società di uomini morali e che per ciò stesso danno origine a sistemi totalitari, a fenomeni di giustizialismo, a varie operazioni di «pulizia» volte ad eliminare gli «ingiusti». In questo modo, però, si elimina anche il tratto distintivo dell’essere umano: la libertà, che può fiorire, scegliendo per il bene, inaspettatamente, come per miracolo. Attraverso numerosi esempi Nissim indaga le cause che possono far scattare questa dinamica: il rispetto per se stessi che impedisce di assistere inerti ad azioni efferate, la vergogna per avere permesso un atto scellerato e il fermo proposito di rimediare alla propria viltà, il lavoro su di sé, nel silenzio e in solitudine, proposto dalla filosofa Hannah Arendt, che porta a pensare finalmente con la propria testa e ad esercitare la preziosa attività del giudizio. Ma il più delle volte, e lo si vede nelle pagine dedicate allo scrittore russo Vasilij Grossman, il cammino della libertà e della bontà sboccia e si sviluppa di sorpresa: non a caso l’autore di Vita e destino parla di «bontà insensata», non riconducibile ad alcun antecedente.
I giusti che Nissim ci presenta non sono quindi eroi senza macchia; l’autore sottolinea che non si tratta di «uomini santi, ma imperfetti, come lo siamo tutti», e qui, forse, ci sarebbe da precisare che nella tradizione cristiana il santo non è mai l’uomo perfetto ma è chi si sostiene a un Bene infinito che lo supera.
Nel libro di Nissim si coglie il tentativo di dare ragione dell’impulso al bene che nasce nell’animo dell’uomo. Un elemento importante è la «gratitudine», che indica un «esercizio dell’anima» faticoso ma utilissimo. Come può un uomo, che ha subito azioni brutali, ritrovare la pace del cuore, senza abbandonarsi al cinismo né rinchiudersi in se stesso o nella propria cerchia? Esercitando la memoria del bene ricevuto, suggerisce Bejski. Che non è tanto un dovere morale, quanto un’azione che fa bene innanzitutto alle vittime, dando loro la forza di ricominciare. Il rischio della chiusura, secondo Nissim, non riguarda solo gli ebrei ma tutti i popoli toccati da crimini contro l’umanità. Da qui il suo appello a «detribalizzare la Shoah», a rendere questo dolore indicibile non pretesto per una chiusura ma, attraverso l’esercizio della gratitudine, occasione di apertura alla sofferenza di altri popoli, nazioni, gruppi e singole persone, insegnando loro a come liberarsi dal male attraverso la memoria del bene.
Un altro elemento importante è quello del perdono, considerato un «pilastro della convivenza civile». Chi, senza occultare l’effetto del male, decide di perdonare, permette all’altro di liberarsi dalle colpe del passato e di ricominciare da capo. Sono quindi da considerare «giusti» non solo coloro che hanno salvato vite umane, ma anche chi non si è lasciato avvelenare dall’odio, aprendo così la strada alla ricomposizione delle ferite. È più facile perdonare se l’aguzzino si pente dei suoi delitti ma Nissim riconosce che esiste anche un altro genere di perdono, per così dire «unilaterale», ossia gratuito, che richiede una forza sovrumana. Per Nissim, tuttavia, questa forza è immanente, e va trovata in sé e negli altri.
Vivere cercando il bene per sé e per gli altri può portare talora al vertice massimo della statura umana: quello del sacrificio estremo di fronte al male. In un regime come quello sovietico, che oltre a distruggere fisicamente l’avversario ne vuole possedere anche l’anima, facendogli confessare «colpe» che non ha commesso, Nissim individua alcune figure che hanno percorso questa strada. Parla ad esempio di padre Pavel Florenskij, il geniale teologo e scienziato ortodosso che, arrestato nel 1933, di fronte agli inquirenti confessa colpe inesistenti non perché impaurito dalle minacce, ma per salvare la vita a un altro prigioniero, andando così incontro alla fucilazione.
Attraverso i numerosissimi spunti offerti dalle biografie dei giusti, l’autore abbozza una sua spiritualità laica, che punta tutto sulle risorse della persona e sulla sua capacità, sia pure limitata e sporadica, di creare buone relazioni con i propri simili: «Non esiste un messia venuto dall’aldilà, ma un uomo può, invece, diventare il messia dell’altro uomo».
(D. Boero)


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